venerdì 20 settembre 2013

ogni tanto capita



ogni tanto capita





L'anno scorso ho partecipato a un concorso di poesia, credo sia stata la prima o seconda volta in vita mia che mandavo i miei scritti da qualche parte senza accompagnarli. Il concorso è molto prestigioso, e il gioco vale la candela. Premio 13, organizzato dal centro di poesia contemporanea di Roma, avallato da ben tre università, La partecipazione è aperta a tutti, italiani e stranieri.Si partecipa con una silloge inedita, in lingua italiana o straniera, che abbia un titolo e un indice finale delle poesie raccolte. 

La silloge va inviata specificando in oggetto il  nome del Giurato al quale si vogliono sottoporre gli elaborati. 13 giurati, 13 case editrici, e 13 vincitori, ognuno premiato da un giurato con pubblicazione e contratto di edizione. M sembra piacevole, raccolgo tra i miei innumerevoli testi una ventina di pagine scritte con inchiostro, sangue, lacrime e sudore e provo a sceglierne qualcuna da annodare. D'un tratto guardo in libreria e scorgo "20 poesie d'amore e una canzone disperata" di Pablo Neruda, e lo ri-divoro.  Mi viene in mente il titolo di un disco di Francesco Guccini, che si chiama "QUASI COME DUMAS", e poi ancora il titolo di un libro di Alvaro Mutis che si intitola "STORIE DELLA DISPERANZA".
Mi metto a cercar di capire la disperanza, e  la metto su carta, anzi su open office, e scrivo la mia "CANZONE DI DISPERANZA".
E mi illumino: QUASICOMENERUDA, 20 poesie d'amore e una canzone di disperanza. Ci sta bene, per un'ottima serie di motivi. Poi decido di inviare il tutto, e invio il book tra i 13 giurati al presidente del premio, tanto per provare, non conosco nessuno, lo mando direttamente alla poetessa Serena Maffia, la presidente.
Svogliato, una sera di novembre, mi affaccio sul sito del premio, giusto per sapere chi ha vinto, e leggo incredulo il mio nome. Candela accesa!
Il 2 di febbraio, al Campidoglio, nella capitale, ho ricevuto il premio e firmato il mio primo contratto editoriale.
Il 27 di questo mese alle 20 e 30 presenterò, nella biblioteca pubblica più antica di Puglia, la Biblioteca Finia di Gravina in Puglia, la mia città, il libro, edito da  Giulio Perrone Editore. QUASICOMENERUDA, 20 poesie d'amore e una canzone di disperanza.  
Ogni tanto capita.

Il prof. Marcello Walter Bruno, ha scritto delle parole stupende come intro del volumetto che m'han pubblicato. Volentieri le anticipo.

INTRO: E POP SIA di Marcello Walter Bruno
In effetti ogni poesia
potrebbe intitolarsi «Attimo».
W. Szymborska

Esiste una tradizione poetica per la generazione post-pop? Quando io facevo il liceo, a cavallo fra i Sessanta del nuovo cantautorato (con De André che musicava Cecco Angiolieri prima di passare a Edgar Lee Masters) e i Settanta del nuovissimo cantautorato (con Battiato che dedicava Fetus ad Aldous Huxley), l’apprendistato scolastico si limitava ai pochi geni maledetti della letteratura italiana (Leopardi che uccide Silvia nel volgere di un interrogativo, decomponendone il corpo-nome nell’anagramma “salivi”) e ai troppi della letteratura francese (da Villon a Baudelaire, dai gay Rimbaud e Verlaine al gay Gide). Poi arrivò Jukebox all’idrogeno, la versione censurata dell’Urlo ginsberghiano a cura di Fernanda Pivano, e assieme al fraseggio jazz della beat generation ereditammo Withman e gli haiku, il flusso dell’epoca epica e la condensazione dell’istantanea zen. D’altro canto, il ’68 opponeva i poeti comunisti – Brecht e Neruda, per non dire Mao e Ho-Chi Minh – agli amabili lirici alla Prévert (comunque pubblicato dalla Feltrinelli) e alla Pavese. Difficile dire gl’intrecci fra novità editoriali e novità discografiche, soprattutto con l’avvento del poeta-cantautore (da Leonard Cohen a Patti Smith passando per il Paul Simon che cita Emily Dickinson e Robert Frost) e poi del poeta drammaturgo (Mariangela Gualtieri come contraltare di Giovanni Lindo Ferretti?), ma il dato di fatto è che la generazione X si è nutrita indifferentemente di sonetti e pop songs, liriche e lyrics, sperimentazioni saussuriane e regressioni neomelodiche.
Il poeta e cantautore Salvatore Digennaro si confronta (fuori tempo massimo?) con Neruda, ma è evidente in questa raccolta che il canto generale ha lasciato il posto a un caos generale (linguistico prima che politico-sociale) in cui l’unico elemento di stabilizzazione del logos è paradossalmente il pathos. Ecco allora che tutto un repertorio lessicale ancorato alla globalizzazione mediatica (tsunami, part time, clandestino, start, stand by, previsioni del tempo e così via audiovisualizzando e anglicismizzando) convive con improbabili residui ottocenteschi (giaciglio caldo, ulivi secolari, quercia salda, persino la campana del vespro delle carmelitane scalze) e una tendenza pop alla rimassonanza (inverno/inferno/infermo, pupille/farfalla/vacilla). Se il pugliese Carmelo Bene è stato il campione dell’ibridazione mediterranea in seno ai mixed media, il pugliese Digennaro sembra seguirlo nell’ostinata anacronia delle figure retoriche: da un lato la poesia «sugge linfa» come una vamp dannunziana, dall’altra «è un ticchettio di labbra sulle labbra» rivelando che gli endecasillabi adesso si battono sulla tastiera.
Sui riferimenti neruditi, prelievi intertestuali e clonazioni tematiche, deciderà il lettore colto. Qui mi limito a segnalare che il format prevalente di questi blues è la reiterazione, sia come riproposizione letterale del titolo in ogni capoverso (la mia poesia, io sto, puoi, un’altra notte, io ti rapirei, il mio amore, quello che voglio) sia come montaggio alternato di assonanze (in Attimi gl’incipit tremo/fremo/freno e il ritornello «attento attendo»). Siamo, insomma, in pieno flusso cantautorale, benché i rimandi espliciti siano al cinema («colpo da Chaplin», «il poster di nascosto di Marilyn Monroe», «diverrei peggio dei soliti ignoti») e non manchino riferimenti letterari («il cuore rivelatore di Allan Poe» e persino «il fanciullino pascoliano / che ha paura del dentista»). La dimensione della reversibilità, che fa capolino nel palindromo «ero malato, crepo per cotal amore», si rivela una variante della cantabilità, intesa come soggezione del senso al ritmo, della narrazione al montaggio, della figurazione all’action painting, del dato alla sua infinita processualità.
Perché, se fosse ancora possibile fare poesia nell’epoca della computabilità informatica di tutti i significanti, essa sarebbe «digitale purpurea»: rossa quasi come Neruda, ma disperatamente votata al karma della virtualizzazione.

ogni tanto capita.


© salvatore digennaro


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